lunedì 17 novembre 2008

E se l'Africa rifiutasse lo sviluppo?, Et si l'Afrique refusait le développement?, And if Africa Denies Development?



La pompa a mano è in panne, ma nessuno la ripara; si aspetta una delle tante Cooperazioni Internazionali invii soldi per procedere alla sua riparazione; nel frattempo le donne continueranno la dura corvé dell'approvvigionamento dell'acqua lontano dal villaggio e da pozzi contaminati. Il villaggio non ha i fondi per pagare il riparatore; oppure ha i fondi e il riparatore si é venduti gli attrezzi donati e se ne andato in città a cercar fortuna. Come fai, fai male.

Camion sonda, donato dalla Cooperazione Italiana costata centinaia di milioni di vecchie lire; doveva continuare a perforare le viscere della terra alla ricerca del prezioso liquido, una volta partiti i tecnici italiani.

Axelle Kabou, la Cassandra africana.
"L'Africa del XXI secolo sarà razionale o non sarà" .
Con questa frase la scrittrice camerunense, Axelle Kabou, una delle pochissime voci provenienti dall'Africa disposte a fare dell'autotocritica, conclude il suo libro: E se l'Africa rifiutasse lo sviluppo? (Edizioni L'Harmattan).
Nei 15 anni trascorsi il Continente ha accumulato debiti esteri per 330 miliardi di Dollari, il suo reddito è diminuito dell'11 per cento e la speranza di vita alla nascita dei suoi abitanti è scesa a 46 anni dopo aver sfiorato i 52 all'inizio degli anni ‘90: eppure i suoi leader e i suoi popoli continuano a rifiutare di assumersi le loro responsabilità e puntano il dito accusatore contro il resto del mondo con argomenti che danno ragione ad Axelle Kabou.La mancanza di razionalità sta decimando gli africani che ancora muoiono di fame e di sete malgrado le loro immense ricchezze naturali e l'inesauribile astronomico flusso di aiuti finanziari che le Cooperazioni allo sviluppo e l'antagonismo tra Occidente, comunismo e Islam hanno concentrato nelle loro mani: proprio come prevedeva e temeva Kabou, un'Africa scaltra e accattona che «non vuole lo sviluppo» prevale e vanifica gli infiniti sforzi di far finalmente fruttare le risorse della Terra e il lavoro come l'umanità dimostra di saper fare negli altri continenti. Benché indipendenti da mezzo secolo, quasi tutti i leader africani, se aprono bocca, è per lamentarsi. Come se i problemi di cui denunciano l'esistenza non fossero colpa loro. «Nonostante la nostra importante produzione di minerali, continuiamo a importare prodotti in ferro e acciaio. Abbiamo le vacche, ma ancora importiamo carne disossata e congelata», tuonava il 31 maggio Paul Kagame, presidente del Rwanda, sollecitando investimenti stranieri durante la riunione del Consiglio dei ministri del Comesa, il mercato comune per l'Africa Orientale e Australe, in corso nella capitale rwandese, Kigali. Lo stesso giorno, a Maputo, Mozambico, si apriva il 9° Vertice africano sul petrolio e il gas e il ministro mozambicano delle risorse minerarie, Esperança Bias, gli faceva eco: «Il Mozambico figura dal 2004 nella lista dei paesi esportatori di gas. Il problema è che gli investimenti stranieri non si trasformano in benefici per la popolazione locale». Effettivamente l'85 per cento degli africani non dispongono neanche di luce elettrica e, come ha osservato al Vertice di Maputo Lamon Rutten, portavoce della Conferenza ONU per il commercio e lo sviluppo, «esistono oggi ben poche prove che la vendita (di petrolio e gas) abbia migliorato la loro vita media». (MISNA, 31 maggio 2005) Tutto indurrebbe allora a mettere in discussione il modo in cui gli africani, e in particolare le leadership politiche, amministrano i capitali ricavati dall'esportazione delle materie prime di cui il continente è così ricco. Invece, da ogni angolo del pianeta si levano richieste di ulteriori contributi, possibilmente a fondo perduto e meglio ancora se intesi a risarcimento di antichi e nuovi sfruttamenti: Ciampi e Veltroni, in Italia, l'Unione Europea, le Nazioni Unite e infine l'Unione Africana, tutti reclamano l'1 per cento del nostro PIL, o almeno lo 0,7 per cento, come se questa fosse la soluzione. La tendenza del momento, poi, il nuovo argomento per spiegare come mai gli africani restano poveri anche quando i loro Paesi ovvero i loro governanti ricavano fortune dalla vendita di petrolio e altre utili materie prime, è stata inaugurata il 25 maggio da Festus Mogae, presidente del Botswana: «Con un po' di fortuna - ha spiegato durante una conferenza internazionale svoltasi a Mumbai, India - quest'anno dalle esportazioni di diamanti ricaveremo 1,75 miliardi di dollari. Dividendo l'ammontare per la popolazione, pari a 1,7 milioni di persone, se ne ottiene un reddito di poco più di due dollari al giorno per abitante».Subito in sintonia con Mogae, anche Olusegun Obasanjo, presidente della Nigeria, ha fatto i conti. Il suo Paese è il primo produttore di petrolio dell'Africa sub-sahariana e nel 2004 ha estratto 2,4 milioni di barili di greggio al giorno pari a 34 miliardi di dollari di entrate. Ma, spiega Obasanjo, la cifra apparentemente ingente equivale solo a 50 centesimi di dollaro a persona al giorno. Fa riflettere sull'uso pubblico e privato del denaro in Africa il fatto che, per esempio, proprio il predecessore dell'attuale presidente nigeriano, il defunto Sani Abacha, in soli sei anni di potere - dal 1993 al 1998 - sia riuscito ad accumulare in banche svizzere 2,5 miliardi di dollari, senza contare altri beni sparsi per il pianeta.
Anna Bono.
Testo tratto da: Il Legno Storto.